Storia della Ribona

Piceni e Romani popoli che svilupparono la viticoltura con sostegno

Uno dei nomi arcaici dell’Italia sembra essere stato «Enotria», la cui etimologia è inequivocabilmente riconducibile al vino e molti ne hanno parlato come terra dei vini, ma secondo gli studiosi dell’antica Grecia «Enotria» deriverebbe da “enotrion” che in greco arcaico significava “palo da vigna”. La storia ci insegna che la viticoltura specializzata con la vite appoggiata ad un tutore veniva praticata nelle Marche e in Sicilia già dal XV sec. a.C. dunque ancor prima dell’età del ferro. La presenza dei Piceni, antico popolo italico assorbito poi dai romani, diede all’intero territorio di produzione dei vini a denominazione «Colli Maceratesi» un’unità culturale che persiste tuttora. Dopo la caduta dell’impero romano, che aveva visto l’espandersi della coltivazione della vite, si assistette ad una fase di declino dell’intera attività agricola che ricevette nuovo impulso grazie all’opera degli ordini monastici che si diffusero in modo capillare nell’intero territorio delle Marche che furono tra le prime regioni d’Italia a recepire il fenomeno del monachesimo.

La gestione delle vigne dei monaci cistercensi

I primi indizi della presenza di monaci e monasteri nel Piceno risalgono infatti al V sec. e a partire dalla seconda metà del VII sec. le fondazioni benedettine ricevettero notevole impulso economico e religioso dai re e duchi longobardi. Di particolare rilievo per il territorio dei «Colli Maceratesi» fu l’influsso dei monaci cistercensi che fondarono nel XII secolo l’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra, che all’apice del suo successo giunse a controllare con chiese e monasteri gran parte del territorio maceratese, spingendosi anche nell’area dell’attuale comune di Loreto. Il vino costituiva un prodotto quasi indispensabile per i monaci. In ogni abbazia cistercense situata in regioni dal clima favorevole, venivano piantate delle vigne che poi si mantenevano con cura e, se possibile, si ingrandivano. I cistercensi di Fiastra pertanto avviarono un’attività agricola ben organizzata, finalizzata alla produzione di vino e altri beni da commercializzare, che li portò a primeggiare sui mercati locali. Nonostante la successiva decadenza dell’Abbazia, tuttora presente ed operante dopo un lungo periodo di abbandono, la rinascita dell’attività agricola basata non più sulla sussistenza, ma sulla conduzione economica della terra, compresa la gestione delle vigne e la trasformazione vinicola, era oramai iniziata.

Nel periodo rinascimentale la coltivazione della vite e la produzione del vino avevano ripreso un ruolo centrale nell’economia rurale e nella società. Il rapporto mezzadrile si era intanto diffuso nell’area maceratese unendo capitale terra e forza lavoro e favorendo lo sviluppo rurale del territorio. I mezzadri, ma anche i piccoli proprietari diretti coltivatori, impiantarono vigneti in tutte le zone della provincia per produrre vino destinato al consumo familiare e diedero luogo a una viticoltura promiscua costituita in massima parte da alberate non molto diverse da quelle dell’epoca romana. Lo sviluppo della viticoltura in modo intenso e razionale avvenne soprattutto nelle zone meno elevate in quanto sollecitato dagli investimenti di proprietari terrieri cittadini e le viti, sostenute da pali o canne, dominarono il territorio maceratese nel corso dei secoli successivi. Alcune testimonianze dirette e d’archivio riportano che il “Trebbiano di Camerino” era ben noto persino a Venezia.

Nella seconda metà del XIX secolo i metodi di coltivazione della vite erano ancora molto simili a quelli impiegati in epoca romana, ma, dopo l’unità d’Italia e in seguito all’epoca fillosserica, iniziò la sperimentazione di nuovi metodi di gestione della vite e tutto il territorio fu interessato da un’intensa attività volta a valutare le migliori varietà di viti da impiegare nei nuovi impianti. Nell’ampelografia del circondario di Macerata (1875) il Santini descrive i vitigni che vi erano prevalentemente coltivati rilevando una netta prevalenza di quelli a “frutto bianco o giallognolo”.
Tra questi ultimi viene riconosciuta particolare importanza a Montecchiese (ovvero la Ribona di Loro, San Ginesio e Tolentino; il Greco Maceratino di Recanati), Verdicchio, Trebbiano, Malvasia e Pecorino.
Il professor Salvatore Santini in uno studio che condusse nel 1877 sull’ampelografia maceratese descrive anche le principali varietà a bacca nera del circondario di Macerata inserendo Vernaccia e Lacrima precisando persino che nello stesso periodo si stava valutando l’adattamento del Sangiovese e dei vitigni di importazione in diversi territori del Maceratese.

All’inizio del XX secolo ebbe inizio una fase intensa di ricostituzione viticola nelle Marche, che interessò la zona di produzione della denominazione “Colli Maceratesi” e che vide il diffondersi di Sangiovese e di altre varietà di pregio a bacca bianca e nera. Occorre tuttavia attendere la scomparsa della mezzadria e l’intervento pubblico degli anni 60 e 70 affinché giunga a compimento il processo di rinnovamento della viticoltura della zona attraverso la ristrutturazione degli impianti e l’impiego delle migliori varietà, quali Maceratino localmente detto Ribona, Verdicchio, Trebbiano toscano, Sangiovese, Vernaccia nera.
In questo nuovo contesto i produttori sono stati stimolati a produrre non solo vini ottenuti da uvaggi di varietà ben adattate al territorio, ma anche prodotti monovarietali ottenuti soprattutto a partire da Ribona Maceratino e Sangiovese. La richiesta della denominazione e il successivo riconoscimento come Colli Maceratesi DOC nel 1975 hanno stimolato lo sviluppo e la specializzazione delle strutture di trasformazione enologica presenti nel territorio orientandole al mercato nazionale e internazionale.

Leggi anche: I vini delle Marche